«Dove la carità è vera, abita il Signore».
Che potremmo anche ridire così:
«Dove abita il Signore, la carità è vera».
È importante tenere sempre uniti questi due elementi: la concretezza della carità e il suo legame con il Signore Gesù.
La concretezza, anzitutto, perché la carità non rimanga solo un bel discorso, un argomento da predichino o da catechesi. Prima ancora che essere detta, la carità va fatta, va vissuta.
Va in questa direzione, per esempio, la prima lettura, che dopo averci detto che i cristiani della prima comunità “avevano un cuor solo e un’anima sola” e che tra loro nessuno era bisognoso perché tutti provvedevano alle necessità di tutti, riporta un caso concreto, attestato e verificabile:
«Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Bàrnaba, che significa “figlio dell’esortazione”, un levita originario di Cipro, padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli» (At 4,36-37).
Bontà d’animo di Barnaba? Intraprendenza, moto di generosità? No. Alla base di tutto, sembra di capire, c’è l’attività degli Apostoli che «con grande forza … davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù» (At 4,33). L’annuncio della Risurrezione e la sua accoglienza nella fede rendono possibile questa carità concreta, attiva, direi quasi strutturale.
Ora, se l’esempio di Barnaba ci può sembrare lontano, magari troppo alto per noi, cosa dire del «comandamento nuovo» che ci consegna Gesù, come abbiamo sentito nel brano di Vangelo?
Conviene riascoltarlo:
«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,34a).
Un bell’ideale. Altissimo. Lontano. Irraggiungibile. Forse. Se non fosse che subito Gesù aggiunge: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34b).
Non un amore qualunque, non un voler bene qualsiasi. Gesù sta dicendo queste cose in un contesto particolare, quello dell’ultima cena, e in un momento ben preciso: dopo il tradimento di Giuda. Questo amore che Gesù raccomanda ai suoi è lo stesso che lui sta vivendo in quel preciso momento, mentre sta consegnando la sua vita al Padre per amore dei suoi; anche di Giuda.
Non un amore qualsiasi, dicevo, ma un amore che si misura e si modella concretamente sull’esempio che Gesù ha incarnato e di cui ha lasciato un “segno” concreto, tangibile nell’Eucaristia.
Un amore che, se accolto e vissuto, trasforma in modo radicale non solo il singolo, ma anche l’ambiente in cui vive, come è stato per la prima comunità cristiana: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
Ora, la cosa bella, la cosa sconvolgente, secondo me, è che questo amore di cui stiamo parlando, questa carità che è al centro delle letture di questa domenica non ci viene richiesta come un prerequisito per essere graditi a Dio, né tantomeno ci viene imposta come una condizione di appartenenza al gruppo dei discepoli di Gesù, ma piuttosto ci viene proposta, suggerita, indicata come una meta verso la quale provare a camminare.
È Gesù stesso che suggerisce questa cosa quando ricorda ai discepoli che «come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire» (Gv 13,33).
Non siamo in grado, da soli, di arrivare a questa meta così alta, a quella perfezione dell’amore, a quella pienezza di amore che Gesù ha manifestato nella sua passione-morte-risurrezione.
Non siamo ancora in grado di vivere a questo livello così alto e esigente di amore. Possiamo però provarci, possiamo, appunto, incamminarci lungo quella che Paolo, nella seconda lettura, ci indica come «la via più sublime»: la carità.
Si tratta cioè di educarci a gesti concreti, a uno stile concreto di carità.
Nella recente esortazione apostolica post-sinodale “Amoris lætitia”, Papa Francesco dedica un intero capitolo, il numero 4, alla rilettura dell’inno alla carità di San Paolo e suggerisce proprio degli atteggiamenti concreti che possono aiutarci a camminare e a crescere in questa direzione. Lo fa, certo, parlando della realtà concreta della famiglia, guardando quindi all’amore coniugale in modo particolare. Ma sono convinto che ciascuno di noi ne può trarre insegnamenti preziosi anche per il proprio cammino personale.
E voglio proprio concludere con le parole finali di Papà Francesco, che risuonano come augurio e invito. Anche in questo caso, il riferimento è alla famiglia, ma possiamo tranquillamente applicarlo alla nostra personale condizione:
«Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (Al 325).