“La Chiesa senza dubbio è detta cattolica, cioè universale, per il fatto che è diffusa ovunque dall’uno all’altro dei confini della terra; e perché universalmente e senza defezione insegna tutte le verità che devono giungere a conoscenza degli uomini, sia riguardo alle cose celesti, che alle terrestri” (Cirillo di Gerusalemme, IV secolo).
In quest’ottica si pongono le letture proposte dalla liturgia di questa domenica. Lo sfondo è quello dell’universalità, della cattolicità; del per-tutti. L’aggettivo “cattolico”, prima di divenire etichetta di denominazione – e che spesso viene abusato per rivendicare diritti di primazia o di unicità! – , designa, di fatto, la missione cristiana. Che sia di tutti è proprio di ogni notizia: tanto più per la più buona delle notizie che l’uomo possa ascoltare.
Per questo Dio promette: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18b). I termini qui sono escatologici, cioè riferiti alle cose ultime e non alle ultime cose. La riunione di tutti i popoli e di tutte le lingue è permessa nello Spirito: Pentecoste diviene possibilità di questa “diversità riconciliata” (EG 230).
La promessa riguarda tutti coloro che “non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria” (Is 66,19b). C’è una moltitudine che ancora non conosce il vero volto di Dio. Non è parola che giustifica il proselitismo, piuttosto incentiva la missione. L’obiettivo non è aumentare il numero della propria cerchia, ma portare a salvezza.
“Egli vede tutti gli uomini; scruta tutti gli abitanti della terra, lui che di ognuno ha plasmato il cuore” (Sal 33,13b.14b.15a) ci ricorda il salmista. Ogni cuore porta in sé cicatrice in segno di perenne ricordo della nostra provenienza.
Per bocca del Profeta Dio manifesta l’universalità della sua promessa. Tutti sono coinvolti, nessuno escluso. Porre dubbi su questo significa mettere limiti al disegno di Dio.
Promessa – alleanza – non più legata alla generazione di sangue; addirittura saranno i “superstiti” (Is 66,19a) – cioè pagani convertiti – a divenire annunciatori. Coloro che inizialmente non erano nemmeno contemplati nel piano di salvezza diventano ora i primi protagonisti.
Parola che viene provata dal “funzionario del re” (Gv 4,46b); un pagano. Gesù giunge nuovamente a Cana, in Galilea, dove aveva compiuto il primo segno: l’acqua tramutata in vino. Quel funzionario esce dal ruolo, esce dalla sua legge, dal suo regolamento, dalla sua moralità, dai suoi schemi. Quell’uomo è disperato: “aveva un figlio malato a Cafàrnao che stava per morire” (Gv 4,46b.47b). Quell’uomo sente che Gesù è nei paraggi e tenta il tutto per tutto: “si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio” (Gv 4,47). Quel pagano ci insegna la più alta forma del credere: oltre ogni speranza umana. Quel pagano comprende che non potrà essere la potenza dell’Impero di cui faceva parte a salvare suo figlio. Comprende che l’uomo, da solo, non è in grado di salvare.
L’intero racconto è costruito sul tema della fede. Il funzionario per fede va da Gesù e sempre per fede ottiene: “Va’, tuo figlio vive” (Gv 4,50a). Poche parole che ricordano quelle di Creazione. Poche parole che sanno di comando diretto alla malattia. “Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino” (Gv 4,50b). L’uomo ritorna e a casa constata quanto aveva udito per bocca di Gesù: il figlio è guarito e come frutto “credette lui con tutta la sua famiglia” (Gv 4,53b). La buona notizia, quando ti raggiunge ha forza di espansione. La buona notizia genera nuovi figli. Quella parola di Gesù non solo guarisce ma ha forza di salvezza. Chi crede è in grado di “vedere segni e prodigi” (Gv 4,48) realizzarsi nella propria vita.
Paolo svela ancora di più questa portata universale non più legata alle Legge che esclude, “ma in virtù della giustizia che viene dalla fede” (Rm 4,13b) che include. E’ certamente il tema che più sta a cuore all’Apostolo: noi siamo salvati/giustificati non per merito ma per fede! La salvezza non è più riservata solamente al popolo eletto ma si apre a tutti coloro che accettano nel cuore Gesù. C’è una generazione non più di sangue ma di fede per questo “Abramo è padre di tutti noi” (Rm 4,16c). Questa (ri)generazione avviene nello Spirito. Il passaggio dal prima al dopo, dal vecchio al nuovo è passaggio “dallo spirito della Legge alla legge dello Spirito” (Raniero Cantalamessa).
Questa è la più grande verità che dobbiamo tornare a predicare! E’ la più grande notizia che il cuore di ogni uomo cerca: se con il tuo cuore accetti Gesù nella tua vita tu sei salvo, già qui; già ora! Accettare Gesù morto e risorto è accettare di essere salvati. Da soli nessuno riesce nell’intento.
“Nulla nostro che sei nel nulla, nulla sia il tuo nome ed il tuo regno, nulla la tua volontà in nulla come in nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano e rimetti a noi i nostri nulla come noi rimettiamo ai nostri nulla e liberaci dal nulla” scriverà duramente Ernest Hemingway, nobel per la letteratura, scimmiottando il Padre nostro. Hemingway morirà suicida sparandosi un colpo di fucile in bocca: non si può vivere di nulla!
Gesù è colui che viene a salvarci dal nostro nulla, facendoci “eredi” (Rm 4,16a) di questa promessa. Eredi perché godiamo già qui dei frutti. Eredità che comporta diritti e doveri: il nostro diritto è la salvezza; il nostro dovere è vivere da salvati e divenire missionari di salvezza.
Eredi perché siamo figli di Re!
Alessandro