I termini, in questa domenica “del perdono”, sono quelli della gioia, della festa, del giubilo. Occorre fare festa poiché, come ci ricorda il Salmo, “misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 103,8).
Di nuovo Gesù è messo alle strette dalla banda dei farisei e degli scribi (cfr. Lc 15,2) e si trova costretto a giustificare la sua condotta nei confronti dei peccatori. Il capitolo quindicesimo del Vangelo di Luca è forse la pagina più conosciuta, sulla quale sono stati spesi fiumi di inchiostro. Gesù giustifica, attraverso tre racconti, la sua scelta totale di sé di essere dono-per l’altro, per l’ultimo e il misero: la pecora perduta (cfr. Lc 15,4-7), la moneta perduta (cfr. Lc 15,8-10) e la celeberrima parabola del “figlio prodigo” (cfr. Lc 15,11-32) che la liturgia propone in questa domenica, titolo non molto corretto dato che ad essere davvero prodigo è il padre; preferisco, per questo, intitolarla parabola del figlio perduto.
“Un uomo aveva due figli” (Lc 15,11b) inizia a dire il Maestro. Il riferimento è molto chiaro e diventa sempre più nitido proseguendo il racconto: il figlio giovane è immagine dei pagani, dei peccatori, di tutti quelli che non dovevano avere niente a che fare con il Popolo santo d’Israele, è il secondogenito, frutto di un’alleanza postuma; il figlio maggiore, che rimane – sembrerebbe – fedele è immagine dell’esteriorità del legalismo dei farisei e degli scribi. Il padre, lo stesso per entrambi i figli, è Dio. Voglio tentare una lettura più approfondita, più nostra: il padre è il responsabile di comunità, è il sacerdote della parrocchia, è il laico impegnato, è l’educatore dell’oratorio, è il padre di famiglia,… Il padre è immagine di ogni presenza educativa spesa in mezzo a noi. La parabola assume allora forti tratti relazionali tra il padre con i figli e i figli con il padre.
“Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta” (Lc 15,12b) reclama il figlio giovane, in cerca di avventura, stanco della monotonia di casa, stanco delle relazioni familiari-naturali. Il figlio reclama libertà, il padre non si oppone e “divise tra loro le sue sostanze” (Lc 15,12c). Il padre risulta un uomo buono, che sfida la libertà, creduta oppressa, del giovane figlio. Il padre è ferito dall’abbandono, eppure lascia il figlio libero di andare, senza trattenerlo. Che immagine pedagogica forte ci viene mostrata e che ci interpella sul nostro modo di fare pastorale, di vivere.
Non per questo, però, il padre smette di essere padre.
Il figlio parte “per un paese lontano” (Lc 15,13) con la sua parte di patrimonio che celermente sperpera per quella che lui – e con lui molti giovani oggi – crede essere la “bella vita”. Ambrogio, commentando questo brano, mirabilmente sottolinea che “non c’è luogo più remoto di quello in cui va chi va lontano da sé”. Il figlio in realtà non si allontana dalla famiglia ma si allontana dal suo io più profondo, dal suo desiderio più intimo di felicità e di compiutezza di sé. Il giovane risulta dunque essere scisso, diviso, frammentato nel suo io. Vuole la libertà ma terminati i fondi è costretto a “mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci” (Lc 15,15). Il giovane che aveva sognato libertà, figlio di un uomo ricco, si ritrova schiavo. Si ritrova a vivere insieme ai maiali, l’animale più impuro secondo la Legge. Chi si allontana dal Padre, vive da porco!
“Allora ritornò in sé” (Lc 15,17a).
“E’ ben vero che ritorna in sé, poiché si era allontanato da sé” (Ambrogio). Chi si allontana, prima o poi, ritorna. Non si può stare distanti dal padre. Nel cuore regna un perenne senso di nostalgia nei confronti di chi ci ha generato. “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati” (Lc 15,17b-19). Il giovane dentro di sé lascia spazio alla domanda, alla realizzazione del reale: riconosce che anche i servi del padre stanno meglio di lui. Decide di ritornare, spinto inizialmente dalla fame; decide di ritornare mosso a conversione; decide di ritornare ma non più con la dignità, ormai perduta, di figlio ma con quella di servo. Quel figlio esce di casa da libero e spocchioso e ritorna da schiavo umiliato. L’esperienza di libertà, lontano dal padre, lontano dalla comunità, degenera in schiavitù e indegnità. Non si sopravvive da soli.
L’atteggiamento del giovane è lo stesso della prostituta – immagine di Israele – che dopo aver “provato” altri amori, insoddisfatta, dirà: “ritornerò al mio marito di prima, perché stavo meglio di adesso” (Os 2,9b). La prova dell’effimero, di tutto ciò che non è per-sempre, porta ad un ritorno alla stabilità.
E il padre sorprende: non si è stancato di aspettare, non può vivere con un figlio in meno; non si dà pace! Non può ammettere di aver perso un figlio. Quante notti insonni, quanti pianti nella sua camera da letto. La resa non è atteggiamento di paternità. Guai a quell’educatore, a quel sacerdote, a quel responsabile, a quel genitore che si arrende per il figlio in meno!
“Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo bacio” (Lc 15,20). Il padre non lo rimprovera, non gli chiede nemmeno dove sia stato, cosa abbia fatto, non gli chiude la porta in faccia ma gli corre incontro, gli si butta al collo, lo bacia perché mosso da un amore viscerale, di madre. “Mentre tu temi ancora un rimprovero, ecco che egli ti restituisce la tua dignità; tu temi il supplizio ed egli ti dà un bacio; temi un richiamo ed egli prepara un festino per te” (Ambrogio). L’amore del padre è follia allo stato puro; l’amore, per sua natura, è folle perché non legato alla ragione ma alle viscere.
Il padre è talmente euforico che quasi non fa parlare il giovane e ordina ai suoi servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,22-24). Il padre indice una festa esagerata perché ha gioia per il rientro; il padre restituisce la dignità al giovane che si era dimenticato di essere figlio. “E cominciarono a far festa” (Lc 15,24b). Il figlio viene riabilitato immediatamente nella sfera degli affetti, nella comunità, non c’è condanna, non c’è giudizio, non c’è penitenza!
Il figlio maggiore, che non ha avuto nulla da obiettare alla dipartita del minore, “si trovava nei campi” (Lc 15,25a). Al suo ritorno è interdetto ad udire voci e musica di festa, “si rivela che egli veniva dalla campagna, cioè era occupato nelle opere terrene ignorando le cose che sono dello Spirito di Dio” (Ambrogio).
Domandati chiarimenti ad uno dei suoi servi, “si indignò e non voleva entrare” (Lc 15,28a). “Egli resta fuori: non è respinto, ma non vuole entrare perché misconosce la volontà di Dio sulla vocazione dei gentili, e da figlio eccolo divenuto servo” (Ambrogio). Il figlio maggiore, rimasto in casa con il padre, si scopre essere più distante e lontano del fratello. Egli con il cuore è separato dal padre e dal vero amore. Con il cuore, con la sua libertà, si pone al di fuori dell’amore. Chi si sente “maggiore” rispetto agli altri vigili costantemente sul cuore perché non si ritrovi a rinnegare il Padre rimanendo fuori casa.
Il padre ha gli stessi atteggiamenti di compassione nei confronti del maggiore tanto che “uscì a supplicarlo” (Lc 15,28b) di entrare e unirsi alla festa. Non ha preferenze di amore ma il figlio maggiore sì. Si dimentica persino che colui che è ritornato è suo fratello rinfacciando al padre di averlo servito per anni senza aver ottenuto nulla in cambio. In un istante si manifesta quello che da anni ha nel cuore: non solo non è legato al fratello ma risulta slegato anche dal padre. L’amore, quello vero, non si gioca in borsa sperando di ottenere; chi ama osa, senza pretendere nulla in cambio. Il padre ama incondizionatamente; il figlio maggiore pretende per amare.
Anche il maggiore ha perso la dignità di figlio, anche lui è uscito di casa pur rimanendovi fisicamente. Il maggiore non è migliore del fratello: entrambi si sono allontanati dal padre. Ma mentre il grande disprezza l’amore del padre e non lo riconosce più suo, il giovane lo accoglie come dono immeritato. Ecco il motivo della festa, ecco perché bisogna gioire. Egli “non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe” (Sal 103,10)!
La Chiesa, la comunità, è il luogo della festa perenne per coloro che ritornano. Non ci capiti di essere come il figlio maggiore che, rinfacciando di essere rimasto fedele, si scopre perduto fuori sullo zerbino della casa del Padre!
Alessandro