PIENAMENTE SÉ – dialogo solo
Solo calcai il torchio:
con me non era nessuno:
calcarono su me tutti:
inebriato quasi spreco di sangue
in una rossa follia:
solo il torchio calcai:
liquido amore profuso
in estremo furore,
calcai il torchio, solo:
solo a torchiare,
solo a spremere il sangue mio:
tutto il mio Sangue sparso.
(Clemente Rebora)
Nel giardino impara l’arte dell’oliva torchiata, chiamata a mungere olio; è spremuto fino allo sfinimento, “schiacciato per le nostre iniquità” (Is 53,5b).
Solo a Sé; dopo la svendita e l’essere rinnegato, il flagello, le risa, gli sputi, le percosse. Quell’Uomo viene trattato da animale, “come agnello condotto al macello” (Is 53,7c). La Sua umanità oltraggiata; la Sua divinità non creduta.
A noi tocca la sorte di “quelli che passavano di lì” (Mt 27,39a), che guardano, che osservano. Forse anche noi “scuotiamo il capo” (Mt 27,39b); di fronte a Lui “ci si copre la faccia” (Is 53,3c). Forse “lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato” (Is 53,4b). Forse…
Potevi scappare; far intervenire le schiere che Ti obbediscono. Rimani. “Io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50,5b). Mi insegni che l’amore non ammette limite. Limitare è già non amare.
Eppure non chiedi commiserazione; non obbietti, “non rispose nulla” (Mt 27,12b). Il potere di fronte a Te rimane “assai stupito” (Mt 27,14b); rimesso al posto che gli spetta. La potestas deve chinarsi di fronte all’auctoritas. Nulla ha potere su Te. Quel Pilato ha provato tremore viscerale di fronte a Te. Capì ma non trovò coraggio.
La targa, motivo della Tua condanna, dice il vero: “Costui è Gesù, il re dei Giudei” (Mt 27,37b). Credono di farTi un oltraggio a scriverla. Ma è la verità. Quella che Pilato Ti chiese.
Spremuto a freddo, dal torchio della Croce, mostri fino in fondo la Tua autorità; gridi, perché forte dev’essere stato il dolore. Hai avuto un corpo, sensazioni; sentivi. La Tua divinità non ha annullato il Tuo essere Uomo. Sentivi; eccome se sentivi! Ci insegni lì, più che altrove, l’umanità; l’essere carne. Croce è condizione umana che non si può eludere. Chi scappa, muore sul serio.
Gridi il nome del Padre, “il Potente di Giacobbe” (Is 50,26e); perché sai, Lo sai, che “ti assiste” (Is 50,7a), sempre lo ha fatto. La solitudine che senti riguarda il mondo, non il Padre. Siamo noi i veri soli, non Tu. Non dubiti del Padre; avresti smesso di essere Figlio. Ma rimani. Quel centurione se ne accorge. Prima di tutti.
Che Messia è uno che muore così? Uno che “ha salvato altri e non può salvare se stesso!” (Mt 27,42a). Chi sei?
Anche il Padre avrà gridato, il nome Tuo. Lo gridava ad una umanità imbastardita, incattivita. Un coro di grida deve essersi creato “verso le tre” (Mt 27,46a) di quel giorno. Il più terribile dei giorni; il più buio, il più triste, il più solo. Giorno che muore alla morte di Colui che è il Tutto. Se il tempo può provare solitudine, quel giorno l’ha provata. Un giorno solo, ad osservare un Uomo solo. Tempo e spazio sono creature statiche, quel giorno.
La Terra grida al cielo; il Cielo alla terra. Tu sei stato Cielo in terra; sei Terra in cielo. La Croce non è negazione del Padre ma intima unione; punto suo più alto. Sei divenuto l’Unico a portare il peso di tutti; offerta “in sacrificio di riparazione” (Is 53,10b). Avevamo bisogno di Uno così!
Da quell’ora nulla è più come prima. Dalle tre di quel pomeriggio non siamo più gli stessi. “Per le tue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5d). Lo siamo; già stati, a quell’appuntamento funesto. Lo siamo. E mi dici che questo non è un funerale, bensì tappa penultima di un Amore ultimo che “vivrà a lungo” (Is 53,10c). Hai saputo amare fino alla fine.
Uomo della Croce. Sei.
Alessandro