PIENAMENTE NOI – assenti reclamati
Gioia mia:
Cristo è risorto!
(Serafino di Sarov)
Ciò che la Chiesa ha celebrato – e celebra – è il cuore stesso della fede. La frase del monaco, riportata in apice, era il suo saluto rivolto a chiunque incontrasse.
SaperLo risorto, o no, compromette l’esistenza stessa di chi dice di appartenerGli. Quello del monaco dovrebbe essere anche il nostro saluto ordinario. La Risurrezione o compromette il mio esistere, la mia vita, le mie logiche oppure non è. E non è in me.
Ciò che spinse i suoi a testimoniare è questa consapevolezza: saperLo in loro. Non altro.
Questo annuncio, che corre, perché sia “in mezzo alle genti” (Col 1,27a), non esclude “patimenti” (Col 1,24a). Anzi. Li procura.
“La folla insorse contro di loro e i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli” (At 16,22). Motivo fu che Paolo liberò, con un esorcismo, una “schiava che aveva uno spirito di divinazione” (At 16,16b). Questo annuncio di Risurrezione si scontra con forze opposte; la Verità svela la menzogna.
Il grido di Uno risorto da morte schianta al suolo colui che della morte ne è l’autore. Il fatto in sé è talmente nuovo, talmente potente che ha forza di modificare il comportamento. Paolo e Sila sono portatori, nella città di Filippi, di una mentalità nuova. La Risurrezione sdogana un nuovo tipo di cultura; è un modo nuovo di (ri)pensare alle cose. Questo costò a loro il “carcere” (At 16,23).
Nella città vi sarà sempre il tentativo di censura. Il carcere sarà sempre risposta immediata a tale annuncio, perché occorre dare “compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24b).
La censura è la via più semplice al fatto; provare a confrontarsi con esso richiede più difficoltà. Eppure Paolo confida che è “lieto nelle sofferenze che sopporta” (Col 1,24a). E’ una gioia che nasce dalla cenere.
Il carcere non è, però, impedimento. Di notte, i due prigionieri, “in preghiera, cantavano inni a Dio” (At 16,25a). Ecco la forza della Risurrezione! Sono in catene ma proclamano liberazione; c’è qualcosa in loro che non rientra nella logica comune.
Il messaggio cristiano sconvolse la città; sconvolse i cittadini. La forza di questo annuncio deve strabordare dalle panche e dai muri delle nostre chiese per dirsi vero. Per essere pienamente noi.
La “via” (Gv 14,4b) come la chiama Gesù, deve divenire quella del mondo; il fine è “rendere ogni uomo perfetto in Cristo” (Col 1,28b). I nostri sono spesso vicoli chiusi; a senso unico; strade private. Non sono vie incontro all’umano. Liturgie, progetti, parole, norme ci hanno portato lontano dal mondo.
I suoi, che hanno fatto esperienza di Risurrezione, non hanno paura, non temono: “non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,1a). Ci sono città, paesi, luoghi sociali, persone, famiglie che aspettano di essere visitati dal Risorto, che domandano vita.
La Risurrezione svela la nostra natura umana: carcerieri imprigionati. Fino a che non veniamo visitati possiamo aspirare alle sole catene. Paolo e Sila hanno pietà anche per quel carceriere, che “stava per uccidersi” (At 16,27b) a causa del fallimento. Molti altri fallimenti hanno esiti contrari a questo.
La Risurrezione ci spinge ad avere sentimenti diversi: “non farti del male” (At 16,28b). E’ una modalità nuova di approccio all’umano, ad ogni esistenza; senza paura. Consapevolezza di un di più.
Gli annunciatori del Risorto attirano conversioni; sono capaci di parole e di opere che fanno “tremare e cadere” (At 16,29b); hanno una Parola franca e sicura che niente e nessuno potrà mai far tacere. Il mondo domanda annunciatori di questo calibro; che sappiano mostrare Colui che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6a).
La domanda sorge spontanea: dove sono, questi annunciatori?
Alessandro