Giotto | L'Ultima Cena

IL DISCEPOLO È DISPOSTO A FIDARSI, A SERVIRE, A DARE LA VITA

9 febbraio 2020
V DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
Giovanni 4, 46-54

Riflessione a cura di don Erminio Villa

1. Il discepolo è disposto a fidarsi, a servire, a dare le vita

Ritorniamo a Cana per un’altra Epifania, un’altra manifestazione del Signore Gesù, o meglio: manifestazione della potenza della sua parola. Credere in questa parola è vivere

Notiamo una resistenza da parte di Gesù a compiere la guarigione richiesta: “Se non vedete segni, voi non credete”, perché non vuole legare la fede nella sua persona a gesti di potenza. Anche quando la folla che aveva mangiato pane in abbondanza lo cerca per farlo re Gesù era fuggito. Perché non vuole esser acclamato come un operatore di prodigi, non vuole essere cercato per i vantaggi che potrebbero ricavare. 

Chi lo segue e sta con lui dev’essere disposto a fidarsi perdutamente di lui, della sua parola, pronto a servire e dare la propria vita, come Lui. Ecco perché a questo funzionario del re che lo supplica per il suo figlio in fin di vita, oppone un rifiuto. Solo l’insistenza del padre, disperato, ottiene la parola che restituisce speranza. 

2. L’esemplarità di Abramo

Fidandosi esclusivamente della parola di Dio, Abramo si era messo in cammino: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8). 

E una seconda volta Abramo si affida incondizionatamente alla parola di Dio pronto a sacrificare il suo unico figlio: “Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere dai morti: per questo lo riebbe” (Eb 11,17).

Questo funzionario che probabilmente non appartiene al popolo di Abramo, ma ne ha la fede, si mette sulla via del ritorno a casa. Con i servi che gli vanno incontro per annunciargli che il figlio era sfebbrato, questo funzionario vuole accertarsi della reale efficacia della parola di Gesù. 

La febbre aveva cominciato a lasciare il fanciullo proprio nel momento in cui Gesù aveva pronunciato la parola di speranza: “Tuo figlio vive!”. Allora la guarigione è davvero opera della parola del Signore e non semplicemente di un felice decorso della malattia. 

Credendo alla parola di Gesù il funzionario regio si è incamminato verso casa e in quello stesso momento, a distanza, la parola di Gesù ha operato la guarigione. Davvero la parola del Signore è più che parola, è forza, è dinamismo, è energiaCome nel primo giorno del mondo quando Dio disse e la luce fu e con la luce l’intero cosmo. 

3. Basta la parola!

Noi diffidiamo delle parole: il dire e il fare spesso sono separati da una distanza incolmabile. Eppure ci sono parole solide e affidabili come roccia su cui è bello costruire la propria esistenza. Le parole che uomini e donne si scambiano nella fedeltà finché la morte non li separi sono ben più che parole: quelle parole cambiano la vita, costruiscono un legame destinato a durare. 

Nel nostro linguaggio è rimasta traccia di questa forza della parola. Diciamo: ‘Ti do la mia parola’, ‘sono uomo di parola’ e così dicendo mettiamo in gioco noi stessi. Gesù stesso si identifica con la sua parola: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole…” (Mc 8,38). Infatti Gesù non scende eppure con la sua parola raggiunge quel ragazzo malato. 

L’assenza di Gesù è presenza della sua parola. Non è forse questa la nostra condizione? Gesù è assente dalla nostra vita, non percorre le nostre strade, non abita il nostro quartiere, eppure ci è donata la sua presenza grazie alla sua parola. La prima parte della celebrazione eucaristica, liturgia della Parola, ci dona la presenza del Signore, vera presenza, così come tra poco nel pane spezzato. Mensa della parola e mensa del pane. Due segni semplici, modesti, di un’unica reale presenza.