14 febbraio 2021
ULTIMA DOMENICA DOPO L’EPIFANIA (B)
Luca 18,9-14
Riflessione a cura di don Erminio Villa
Due uomini vanno al tempio a pregare. Uno, ritto in piedi, prega ma come rivolto a se stesso: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, impuri…». Inizia con le parole giuste, l’avvio è biblico: metà dei Salmi sono di lode e ringraziamento. Ma, mentre a parole si rivolge a Dio, il fariseo in realtà è centrato su se stesso, stregato da una parola di due sole lettere, che non si stanca di ripetere, IO:
IO ringrazio, io non sono, io digiuno, io pago. Ha dimenticato la parola più importante del mondo: TU. Pregare è dare del tu a Dio. Vivere e pregare percorrono la stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di un tu, un amore, un sogno o un Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero. «Io non sono come gli altri»: e il mondo gli appare come un covo di ladri, dediti alla rapina, al sesso, all’imbroglio. Una slogatura dell’anima: non si può pregare e disprezzare; non si può cantare il gregoriano in chiesa e fuori essere spietati.
Non si può lodare Dio e demonizzare i suoi figli. Questa è la paralisi dell’anima. In questa parabola di battaglia, Gesù ha l’audacia di denunciare che la preghiera può separarci da Dio, può renderci “atei”, mettendoci in relazione con un Dio che non esiste, che è solo una proiezione di noi stessi. Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci si sbaglia su tutto, sull’uomo, su noi stessi, sulla storia, sul mondo(Turoldo).
Il rapporto io-tu
Il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, ci insegna a non sbagliarci su Dio e su noi: fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». C’è una piccola parola che cambia tutto nella preghiera del pubblicano e la fa vera: «TU». Parola cardine del mondo: «Signore, tu abbi pietà». E mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che egli fa per Dio (io prego, pago, digiuno…), il pubblicano la costruisce attorno a quello che Dio fa per lui (TU hai pietà di me peccatore) e si crea il contatto: un io e un tu entrano in relazione, qualcosa va e viene tra il fondo del cuore e il fondo del cielo.
Come un gemito che dice: «Sono un ladro, è vero, ma così non sto bene, così non sono contento. Vorrei tanto essere diverso, non ce la faccio, ma tu perdona e aiuta». Lui tornò a casa giustificato. Il pubblicano è perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza, la sola forza che ripartorisce in noi la vita.
Le parole e i gesti ‘giusti’
È la vita che normalmente costituisce la verifica più esatta dell’autenticità della preghiera. Qui invece è il modo di pregare che diventa spia rivelatrice della nostra vita. Niente da dire sulla figura del fariseo: osservante… fedele… serio… giusto…; eppure… Eppure in quel personaggio modello c’è qualcosa che non convince, una nota stonata, una sbavatura che compromette tutto. È un tipo irreprensibile, inappuntabile, eppure si avverte uno scricchiolio. È come uno che ha l’alito che puzza e ce ne accorgiamo appena apre la bocca per pregare.
Il fariseo ha l’alito che segna una cattiva digestione della religione. L’altro, il pubblicano, non viene certamente presentato come modello di vita, non appare certo come un campione di onestà, è un peccatore pubblico, ma ha le parole giuste, benché smozzicate, un gesto piccolissimo: si batte il petto; e lo sguardo basso: non osa alzare gli occhi. Sono dettagli, ma che risultano decisivi. Questo tornò a casa giustificato e perdonato, l’altro invece no. L’altro invece no perché non ha bisogno di Dio e si sente a posto. Il peccatore invece sì, perché conta solo sulla forza di Dio e sul suo perdono.
Due uomini salirono al tempio a pregare. Anche noi saliamo spesso al tempio a pregare, ma come?
-- don Erminio