Con il passare degli anni mi capita sempre più spesso di ripensare al passato. Quando lo faccio, però, non mi sovvengono ne immagini del primo bacio con mia moglie ne la melodia nascosta nei vagiti dei miei figli: quando il passato ritorna riemergono i giorni neri, la tristezza, le opportunità sprecate, gli abbracci lasciati a metà, le carezze che son diventate schiaffi. In questi ultimi giorni faccio un sogno ricorrente: sono solo davanti ad uno stagno e l’acqua limpida diventa,con il trascorrere del tempo,sempre più marcescente sino a che non ne rimane che un putrido rimasuglio. Posso intuirne la spiegazione ma non comprenderne la causa. Nella mia vita ho sempre cercato di dare il meglio di me stesso e di essere per i miei figli un padre esemplare, uno con cui si desideri trascorrere anche la vecchiaia. Eppure qualcosa è andato storto, non so cosa, non conosco il perché! È sorta un’incrinatura nella mia corazza, qualcosa si deve essere rotto ed io stupidamente mentre tentavo invano di aggiustarlo perdevo gli attimi più belli della giovinezza dei miei ragazzi. Il passato torna: chi dice il contrario è solo un bugiardo e a ben vedere non è neanche un essere umano. Certe volte passo interi pomeriggi sulla poltrona a fissare lo schermo della tv: ci sono molti bei programmi ma nemmeno uno m’interessa perché la cosa che potrebbe destarmi sarebbe la presenza di qualcuno che non c’è e l’affetto di qualcuno che ho perso. Una delle verità, che ho compreso solo alla vigilia degli ottant’anni, è che sono i nostri rimpianti a rendere i ricordi così frustranti. “Quella volta avrei potuto”, “se quel mattino avessi, anziché” “fossi stato presente almeno a quella cosa” sono locuzioni banali e abusate ma che tornano, in pieno viso. Che cosa ho sbagliato quindi? I miei due ragazzi erano molto diversi tra loro eppure io sentivo di amarli alla stessa maniera. Quantomeno mi sforzavo di farlo. Francesco nacque per primo, Stefano per secondo e ancora spero di non aver fatto discriminazione alcuna. Nell’intimo sono consapevole di averla fatta nonostante il mio autoinganno. Perché nessuno t’insegna ad essere padre? Perché sono cosi complicato? Perché non esiste un unico modo corretto per allevare i figli? Se ci fosse stato, l’avrei seguito certamente quantomeno per evitare i danni che da solo ho commesso. Ora è tutto più difficile per me e la vecchiaia non fa che complicare le cose. La sera ispeziono ogni singola parte del mio corpo rimanendo stupito di quanto possa essere anch’io diverso da com’ero prima. Chissà. Forse anche loro, i miei figli, sono un po’ cambiati in questi anni. Non li vedo da tanto, soprattutto uno, ma spero stiano bene, siano in salute, provino ad essere felici e tentino di essere padri migliori di me, riflettevo mesi fa. Un esempio è sempre un esempio anche se negativo, ripeteva spesso mia moglie. Ah, quella santa donna! Almeno potesse esserci lei qui, accanto a me nel letto, ad ascoltare le paturnie di un vecchio senza denti e con la pressione alta. La circostanza curiosa è che la sua foto, quella che ho usato per il funerale, è proprio accanto a quella in cui io raggiante stringo tra le braccia i miei figli. Non mi potete vedere ma vi assicuro che sto sorridendo. Capite l’ironia della vita?
I tuoi figli non sono morti? Penso tra me. E’ vero, non lo sono, ma questo fa differenza? Sono forse qui a darmi il buon giorno, a baciarmi sulla nuca e chiedermi se ho bisogno di qualcosa? No! Sono tanto distanti quanto lo è mia moglie, che è in cielo. Essere presenti è l’unica possibilità per essere vivi. L’ho capito troppo tardi. Francesco è rimasto soffocato, senza possibilità di essere spirito libero dalla legge. Stefano l’opposto invece: odiava troppo la responsabilità che gli gravava sulle spalle. Così ,un giorno, accadde che ne smarrì uno in un modo talmente eclatante che non potei nascondermi dietro all’abitudinario velo di apatia. Quando Stefano ci lasciò, piansi a dirotto come un neonato, come non avevo mai fatto in vita mia. Quel giorno scopri quanto possono essere amare le nostre lacrime dolci. Codardo! Ecco cos’ero. Un codardo e buono a nulla! Perché non provai a trattenerlo? Vorrei tanto poter fare un salto in quel mattino di Agosto, tornare sotto l’ombra dell’ulivo in giardino, e gridare a me stesso: “Fermalo! Digli che lo ami! Che anche se hai sbagliato, anche se non si sente accettato tu di lui hai bisogno!”. Quell’uomo alto e ben proporzionato, con la fitta barba castana, sicuramente non mi avrebbe dato retta. Troppo orgoglioso e troppo condizionato da un educazione distaccata,fredda e disumana.
Ecco che spunta un altro ricordo. Spuntano come i fiori, fiori di campo che trasportano allergie primaverili. C’è
Francesco chiuso nella sua stanza, diverse pile di libri e la sua nuca che ne emerge a tratti come un’onda. Vedo
me stesso passare con noncuranza davanti alla porta aperta, quasi m’invitasse a entrare. Non mi girai nemmeno,
come tutte le altre volte nemmeno lo salutai. Sta facendo il suo dovere, avrò pensato sicuramente. Anche qui un
altro abissale sbaglio, un altro detrito che si deposita nello stagno dei miei attimi di vita. Che cosa renderò a
questo mondo una volta che sarò salito al cielo? Oltre ad un corpo ormai veramente bisognoso di medicinali,
potrò forse restituire almeno un briciolo dell’amore che i miei cari provavano per me?
Un amico una volta mi disse che dopotutto era normale. Secondo la sua opinione erano normali le mie mancanze:
possiamo essere tutti perfetti? No!certo che no, rispondevo, eppure… questo non basta a giustificarle, esatto?
Quando ero piccolo, il mio di babbo soleva ripetermi: “è l’acqua cheta che corrode i ponti”. Acqua, stagni e ponti a
parte, ritengo che furono proprio quelle piccole non-azioni, quelle insignificanti potenzialità sprecate e reiterate
a far crollare il ponte lungo il quale i miei piedi ambivano correre per giungere al cuore dei miei figli.
Ricordo anche il giorno in cui Francesco mi annunciò che di lì a poco si sarebbe sposato. Da qualche tempo aveva
trovato un lavoro, un ottimo lavoro come dirigente in una prestigiosa banca garantendosi un reddito invidiabile.
“Bravo” gli avevo detto alla vista del suo primo stipendio che mi consegno con un sorriso raggiante. “Sei
orgoglioso di me papà?” volevano dirmi i suoi occhi. Io, indaffarato in qualche stupito lavoretto, chiuso nelle mie
gabbie mentali, legato con fili dorati, neanche alzai gli occhi. “Bravo”, fu tutto ciò che riuscì a dirgli. Non
fraintendetemi, io provavo sentimenti d’affetto! Li provavo eccome! Solo che …solo che…
Basta con le giustificazioni. Spero di non arrivare sul letto di morte con una giustificazione ancora in bocca: sono
più che adulto, i capelli bianchi lo attestano, e con il briciolo di saggezza acquisita vorrei assumermi
completamente ogni rimasuglio di responsabilità. Pensavo solo a me stesso. Ero egoista, cosi si dice, giusto?
Prima degli altri, venivo soltanto io, come giusto che sia. L’essere con cui ci si relaziona di più nella vita è la
vocina interiore della propria coscienza, pertanto non bisogna mai trascurarla. Quando è troppo è troppo, e
quando è troppo poco ne senti subito la mancanza.
Stefano e Francesco mi mancano da morire, non ve lo nascondo. Mi mancano,davvero. Ora, anche se distanti,
riesco a vederli. Qualcosa ha illuminato la mia anima e i loro volti. Nella prigione in cui sono stato sino ad ora
c’era una tremenda oscurità,spaventosa a tratti. Poi, all’improvviso, è filtrato un flebile raggio di luce ed ha
illuminato anche le zone più remote, quelle che mai avrei voluto che fossero rese pubbliche. Queste righe ne sono
un esempio, chi si sarebbe mai aspettato che io avessi il coraggio di scrivere dei miei fallimenti? Di raccontarli?
Ora ,mentre perdo anche i pochi stralci di vista, li vedo. Vedo Francesco nella sua bellezza, raggiante nelle sue
vittorie e magnifico nei fallimenti. Vedo Stefano che mi tende una mano, il braccio bucato dalle siringhe, il viso
devastato dalla droga. Vedo lo spettacolo che può essere ripreso in lui, vedo la meraviglia nei suoi occhi umidi.
Ora,prima di congedarmi sia da voi sia dal mondo intero vorrei per un attimo raccontare l’unico successo della
mia vita. Esso prende avvio proprio dal gravissimo fallimento da me compiuto. Non avrei mai dovuto
comportarmi come ho fatto, ma questi ultimi giorni sono stati così speciali che il mio errore è stato solo un
trampolino di lancio per il mio riscatto.
Parecchie settimane fa mi suono inaspettatamente il telefono. Non aspettavo nessuna telefonata, perciò rimasi
ancor più stupito quando un poliziotto dalla voce severa dall’altra parte del capo mi chiese , oltre i dati anagrafici,
se fossi il padre di un certo Stefano, un ragazzo di circa trent’ anni, biondo e piuttosto sciupato.
Parecchie settimane fa non ero ancora cambiato, purtroppo. Cosi riposi che sì, effettivamente mio figlio si
chiamava Stefano e che avrebbe dovuto avere su per giù circa una trentina d’anni, ma che non lo vedevo da circa
sei anni e non ero minimamente a conoscenza del suo stato di salute . “Probabilmente non lo riconoscerei
neanche più” ribattei secco al poliziotto sempre più stupito. “Abbiamo trovato un ragazzo” prosegue “Stava in
mezzo alla strada,a terra, privo di sensi. Fatica a parlare, ha la lingua impastata, gli occhi lucidi, le mani tremano.
Alle poche domande non sa rispondere, dice di non avere una casa,dice di non avere nessuno che lo aiuti. Sembra
disperato. Allora gli ho detto che ci dovrà pur essere qualcuno, anche un lontano parente disposto ad accudirlo.
Altrimenti il ragazzo dovrebbe passare attraverso l’assistenza sociale e finirà in qualche comunità di recupero.
Non certo una bella vita a trent’anni. Ho trovato questo numero nella rubrica del suo cellulare. Speravo lei possa
esserci d’aiuto. ”
“Mi stia a sentire” replicai seccato e dovetti proprio sembrare a quel poliziotto un vecchio scorbutico “Mio figlio mi ritiene morto, lo sa? Sei anni fa è partito da casa, convinto di non sopportare più la mia presenza. Diceva, sei morto per me papà. Da lì non ho più avuto sue notizie ma per vie traverse so che è entrato in giri poco rispettabili: alcol,sesso, prostituzione e droghe. Non le voglie sembrare un padre insensibile ma lei non conosce la situazione. Quel ragazzo potrebbe anche non essere mio figlio. Il mio ha lasciato la casa per il mondo, che sia il mondo ora a curarlo.” Riattaccai accorgendomi di star sudando freddo e di avere il fiatone. Non volli ammetterlo ma quella era una ferita ancora aperta. Ancora sanguinante. Qualche ora più tardi si presentò Francesco, l’altro mio figlio. Mi alzai malvolentieri dalla poltrona, stavano trasmettendo uno dei soliti programmi , un documentario sui pinguini dell’Antartide e non volevo perdermelo assolutamente. Quando andai ad aprire, sulla soglia trovai Francesco e Marta, sua moglie, entrambi con un fastidioso atteggiamento sereno. Ci salutammo con freddezza. Francesco non era mai stato molto espansivo nei miei confronti. Solo adesso, che ripenso a quegli attimi passati, riesco a scoprirne la causa: io non gli insegnai ad amare. Se riuscì ad essere amabile fu soltanto perché, al di fuori della mia portata, gli eventi avevano fatto si che incontrasse qualcuno di cui essere la priorità. Lasciai la televisione accesa mentre i due cercavano di parlarmi. Mi annunciò che Marta era incinta e che presto sarei diventato nonno. “Sono contento” dissi, nulla di più. Restarono circa una mezz’ora, parlammo di formalità e di formalità infatti i nostri incontri si nutrivano Avevo la sensazione che Francesco mi venisse a trovare solamente per amore della perfezione e della regola, puramente per “si deve” , perché è giusto, perché è educazione andare a trovare il proprio padre anziano. Ci salutammo e quando chiusi la porta, i miei occhi non seguirono la coppia di neogenitori che si dirigeva verso l’auto ma schizzarono subito entro casa, verso la Tv, verso le solite cose, verso l’abitudine che uccide. Era notte quando il telefono suonò nuovamente. Dovetti chiedere ripetutamente il significato delle parole che sentivo poiché la voce dall’altra parte sembrava la voce di un moribondo.
“Sono io,pà,” sussurrava la voce “Sono io…”
Quella notte non dormi. Il buio della sera, la luna e le rare stelle in cielo scomparvero e attorno a me si fece vuoto assoluto, totale ed annichilente. Quella voce, tanto simile alla mia, quella voce e quel timbro avevano risvegliato in me qualcosa. Cosa? Tutt’oggi questo rimane un mistero. Ricordo di essermi piegato ai piedi del letto, di aver sussurrato una preghiera ad un Dio di cui dubitavo l’esistenza, di essermi bevuto un caffè e di essermi seduto sulla veranda a fissare inebetito la notte. Di chi era quella voce? Poteva essere solo la sua, di Stefano, di quel morto ritornato dagli inferi. Erano sei anni. Sei lunghi anni che non lo sentivo, ne vedevo, ne baciavo. Stefano era sempre stato il mio preferito, anche se tentavo di dissimularlo. Lui doveva essere la parte migliore di me ed invece di me non si è preso neanche quella peggiore , di me colse soltanto l’assenza. Chi sei tu per me? Chi sei per me! Gridavo muto in quella notte nefasta. Ad un tratto un raggio m’illuminò il volto. Quella scheggia di luce riporto ai miei occhi la mia vera identità: un uomo che ha fallito,che è ferito nel profondo, che è prossimo alla morte. In casa mi ritrovai a parlare da solo con la foto in bianco e nero di mia moglie. In quella foto era ancora giovane, con i suoi fantastici capelli biondi e quegli occhi tanto azzurri da far tremare. Al collo aveva appeso un piccolissimo crocifisso intagliato nel legno: lo portava sempre con sé, era il suo promemoria, soleva dire. Promemoria di cosa? Gli avevo chiesto un giorno. Questo mi ricorda, mi disse ridendo, che non c’è ideale che possa rompere la vita. Mi ricorda che lo spirito è più importante della legge, che le catene non sono per sempre, che vado bene così come sono. Vedi, mi ricorda tante cose, ma se dovessi riassumerle lo farei così: mi baciò intensamente, senza preavviso, mi accarezzo con dolcezza e mi sussurrò all’orecchio sinistro, proprio quello con cui sentivo peggio, “per me sei importante”. Quella notte mi scese più che una lacrima. Caddero le cateratte del mio fiume interiore che fluì incontenibile senza argini. Mi accettai, in quella notte nefasta, mi accettai proprio come padre fallito. Riuscì a farlo perché il ricordo di mia moglie valeva più di qualsiasi altro ricordo. Perché gli unici ricordi che i rimpianti non posso sopraffare sono quelli degli attimi in cui ci siamo sentiti amati. Chiamai immediatamente Francesco, gli dissi di raggiungermi alla stazione della polizia. Tremavo, ancora. Salì in macchina, percorsi il tragitto in un baleno. Entrai di corsa, con i pantaloni del pigiama e i segni di una nottata insonne. “Sono venuto a prendere mio figlio…” dissi tutto d.un fiato “Suo figlio?” mi chiese la segretaria “Si! Mio figlio. Stefano è mio figlio e deve tornare a casa.”
Anche in questa notte la luna m’illumina e mi fa compagnia. Ne sento il fresco abbraccio sulla pelle. E’ da qualche giorno che sono in ospedale, steso su un letto, con l’alimentazione artificiale. Ho smesso di scrivere il mio resoconto ed ora parlo tra me e me, nell’infinità della mia coscienza. Il manoscritto con il racconto della mia vita è ancora sul tavolo. Le ultime parole? “Sto andando a prenderlo.” Non ho capito quale sia la malattia che mi costringe in questa situazione, ma non importa. Forse qualche settimana fa sarebbe stato tutto completamente diverso. Ma ora no. Ciò che più conta, anche se percepisco le forze abbandonarmi e sento il richiamo verso una nuova vita, è l’attimo di felicità che ho provato, finalmente, al termine dei giorni. Sto per chiudere gli occhi, per sempre. Ma adesso li vedo. Vedo Francesco e Stefano accanto a me, a pochi passi dalla soglia. Sono l’ultima immagine che avrò e,stasera, è come se fosse la prima.
Davide Griffini