“Segue la notte al vespero, notte di sangue gravida: Gesù sopporta il perfido bacio che morte provoca” cantiamo nell’Inno ad inizio della celebrazione vespertina della cena del Signore di questa sera.
Notte in cui la Vita, l’Acqua, la Verità, la Luce – immagini utilizzate da Cristo medesimo per rivelarsi alla comprensione umana – viene svenduto. Notte gravida di sangue, in cui tutto sfuma. Notte in cui tutto si adempie. La notte, la tenebra, sembra prendere il sopravvento. E’ l’ora in cui la potenza di Satana si fa più dura, più incisiva, più pungente. E’ l’ora della prova estrema.
Gesù “sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). Il Suo amore è fedele, fino alla fine; fino alla fine di sé. Nell’ora più dura, il suo amore si fa più potente, più crudo, più drammatico. La passione del Figlio non è accadimento casuale o errore di cammino, non è nemmeno un “fatterello” di passaggio. E’ vero dramma, paradigma di ogni dramma umano. Nel Figlio, vittima innocente, vi è il grido di ogni ingiustizia umana subita, vi è la disperazione degli ultimi, dei poveri come dei carcerati, dei sofferenti come degli orfani, dei perseguitati come delle vedove. In Gesù vittima vi è il grido di ciascuno di noi. Vi è il grido delle guerre, il grido di chi viene abusato, il grido di chi è lasciato solo, il grido di ogni peccato. Gesù assume su di sé ogni grido; si fa Egli stesso grido comune al Padre.
E in questo amore decisivo, Egli dà prova estrema di sé nell’istituzione dell’Eucaristia. A tavola con i suoi, li saluta ma non come addio. E’ un a-rivederci. A tavola Egli “inventa”, elevando a segno/sacramento la Sua presenza, destinata “fino alla fine”. “Si diede in cibo agli apostoli con le proprie mani” è la forte espressione che la Chiesa canta nell’Inno del Pange Lingua, composto da Tommaso d’Aquino. Ora il semplice pane e il semplice vino, cibi di tutti i giorni, “d’ora in poi” (Mt 26,29a), nel mistero della comunità riunita, dei suoi che fanno memoriale, diventano il Suo Corpo e il Suo Sangue.
“Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11,26) è il richiamo che Paolo muove verso i credenti di Corinto. Il Mistero di questo notte è mistero eucaristico e mistero sacerdotale che si danno nel mistero della comunione terrena e celeste. Davvero, come diceva il Santo Curato d’Ars “se comprendessimo la Messa, moriremmo di gioia”!
E’ notte intrisa dal Sangue del Sacramento: da questo Sangue provengono i sacerdoti, ministri di Eucaristia. Loro hanno il compito di reiterare nella storia e nello spazio ciò che avvenne nel Cenacolo quella sera. E’ notte in cui tutto viene trasformato: i cibi divengono Presenza di sé; i suoi divengono ministri di Lui; la comunità al tavolo diviene corpo indivisibile per il Sangue. Tutto il cosmo è trasfigurato, piegato, ricreato da questa nuova alleanza del Corpo e del Sangue; nel Corpo e nel Sangue.
“Che cosa ti ha detto l’Apostolo Paolo ogni volta che ricevi l’eucaristia? Ogni volta che riceviamo l’eucaristia, annunziamo la morte del Signore. Se annunziamo la morte del Signore, annunziamo la remissione dei peccati. Se, ogni volta che il sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, allora devo riceverlo sempre, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre avere a disposizione la medicina” afferma il nostro Padre Ambrogio sulla potenza intrinseca dell’Eucaristia. Non è un semplice cibarsi, non è un gesto fermo al passato. Ogni volta che consumiamo il Pane della Vita, Gesù si dona, il Sangue viene versato; il Sacrificio si rinnova in me, in te, in ciascuno di noi affinché godiamo della Sua presenza. Lui ha scelto questa modalità, non perché la capissimo ma perché la celebrassimo. L’Eucaristia non è un fatto di mente, ma di cuore. Non viene “fatta” o ascoltata, ma sempre, da tutti, celebrata. Il Mistero si celebra, così come esso è, secondo la volontà di Chi l’ha istituito.
Così come la Sua consegna libera e vera nelle mani dei persecutori: è un fatto di cuore. Così come la sua decisione “fino alla fine” nei riguardi del Padre: “si compia la tua volontà” (Mt 26,42b) prega il Figlio. Egli non si comporta come Giona che “si mise in cammino per fuggire lontano dal Signore” (Gn 1,3) anzi, “egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” (Lc 9,51). E’ un fatto di cuore, il donarsi agli altri senza volere e chiedere nulla in cambio. La Passione è un fatto di cuore, non mi mente. Chi si accosta pensando di capire, cercando di sapere, con desiderio di indagine, tornerà deluso da questa Sapienza della Croce.
Il nostro compagno di viaggio, in questi giorni sacri, è Pietro. Quel Pietro però non definitivo, non compiuto. No. Il nostro compagno è quel Pietro che non comprende il gesto della lavanda dei piedi, anzi, quasi si offende. E’ quel Pietro che, spavaldo, afferma: “se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai” (Mt 26,33). E’ Pietro che, richiamato poco dopo a vegliare in preghiera con Gesù, provato dalla volontà del Padre, si addormenta. E’ quel Pietro che, dopo un’ora sola, fugge con gli altri al momento dell’arresto. E’ quel Pietro che, per non farsi notare, si nasconde rimanendo in ultima fila nel sinedrio. E’ quel Pietro che rinnega per ben tre volte il Maestro. E’ Pietro che, avvisato poche ora prima, al canto del gallo, piange “amaramente” (Mt 26,75b). E’ il Pietro uomo, ancora dubbioso, ancora incerto, ancora pauroso ad accompagnarci. E’ quel Pietro che deve rinnovarsi definitivamente in quella promessa definitiva: “fino alla fine”.
Noi, in fondo, non siamo tanto meglio.
Alessandro