2 maggio 2021
V DOMENICA DI PASQUA (B)
Giovanni 17,1-11
Riflessione a cura di don Erminio Villa.
Ci sono passi del Vangelo che non chiedono tanto di esercitare l’intelligenza, ma la predisposizione del cuore. Passaggi e parole che si fanno spazio dentro di noi, in modo discreto e paziente, come pioggia leggera che feconda la terra arida…
1. “Alzati gli occhi al cielo”
Va registrato anzitutto un gesto di Gesù. Sta scritto che “alzati gli occhi al cielo” si mise a pregare. Non è solo un movimento degli occhi, una direzione dello sguardo. È più una tensione del cuore, che dice una nostalgia delle origini, il desiderio di tornare alla fonte del proprio essere. Così, mentre ancora i suoi discepoli si guardavano smarriti, respirando un’aria di tradimento, Gesù conclude il suo discorso di addio alzando gli occhi al cielo, invitando tutti a fare come Lui.
Per Gesù alzare gli occhi al cielo era un gesto abituale, premessa, introduzione normale alla sua preghiera. Così come i salmi gli avevano insegnato: “A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli” (sal 123,1). Prima di una guarigione (Mc 7,3) o della resurrezione di Lazzaro (Gv 17,1). O come in quell’episodio di moltiplicazione dei pani e dei pesci, quando, “alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione” (Mt 14,19). Sino allo sguardo levato al cielo durante l’Ultima cena, prima di benedire il pane e il vino…
2. “Padre, è venuta l’ora…”
E mentre lasciamo che Gesù guidi il nostro sguardo verso il cielo, viene alla mente un’indicazione della nostra liturgia eucaristica: quando il celebrante, poco prima di proclamare il prefazio, esorta col gesto delle braccia alzate, tutta l’assemblea dicendo: “in alto i nostri cuori”, tutti rispondono convinti: “sono rivolti al Signore…”. Così Gesù prosegue nel Vangelo, avviando una lunga preghiera, dicendo, con tono di attesa filiale, la parola Padre: “Padre, è venuta l’ora”: una parola che potremo ripetere anche noi una o più volte sostando, magari, come stupiti, quasi scavando la parola, sin quasi a risentire lo stesso intimo affetto di Figlio che sta dentro l’originale aramaico “Abbà”: Babbo, Babbino mio.
Lo sguardo al cielo di Gesù non è di circostanza; vuole solo portarci al cuore di una relazione, nelle trame delicate e calde di un rapporto che già prelude ad un abbraccio. Come quando, guardandosi negli occhi, sentiamo di poter dire d’essere l’uno di fronte all’altro, l’uno dentro l’altro, senza temere d’essere feriti o traditi. E intanto già ti prende la voglia di tuffarti in Lui, assaporando il gusto di sentirti come intrecciato, per un tempo che non si può contare.
3. “Questa è la vita eterna”
E ancora un’espressione Gesù ci regala, quando definisce che “questa è la vita eterna”. Quanto è sobrio e indeterminato il Vangelo nel descrivere l’aldilà, rispetto al ricco immaginario, elaborato da tanti artisti e teologi, lungo la storia della Chiesa. Anche questo, oggi, dovrebbe dirci qualcosa. Cos’è mai la vita eterna alla quale ancora oggi Gesù allude? Bello sarebbe uscire finalmente da un credito eccessivo dato all’immagine di un posto, di un luogo, collocato geograficamente da qualche parte dell’universo. Per dare spazio piuttosto ai dinamismi più umani di una relazione a partire da quella che Gesù intrattiene col Padre suo; e a seguire, anche la nostra, di noi in Lui e di Lui in noi, per sempre. Come fossimo nella trama di un dialogo che non ha fine e che già su questa terra è cominciato.
Anche l’ultima espressione di questo Vangelo assomiglia a un testamento che ormai ci lega a Lui, senza lasciarci più: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. È Gesù, dunque, il nostro posto, il luogo di un appuntamento. Come una relazione d’amore, senza fine.
-- don Erminio