Si apre con una domanda la liturgia di questa domenica. E’ domanda infida; puzza di imbroglio e di inganno. E’ “uno di loro” (Mt 22,35a) – farisei – che la pone a Gesù “per metterlo alla prova” (Mt 22,35b). E’ una domanda che un buon conoscitore della Legge non avrebbe mai fatto. E’ domanda che il pio non farebbe mai per non mettersi in cattiva luce. E’ l’intento che muove quel tale, “dottore della Legge” (Mt 22,35a) che conosceva bene – o almeno avrebbe dovuto – le parole antiche di alleanza.
Vogliono coglierlo in fallo; vogliono farlo cadere, quei tali. La domanda è posta con arguzia, con ironia, con finto interesse: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?” (Mt 22,36). La domanda ha carattere numerico, di massa. E’ calcolo di quantità. Quale è il superlativo assoluto della Legge, il grado massimo? Quel dottore, esperto in cavilli religiosi, sapeva – o almeno così pensava – che ogni singolo precetto, per il pio israelita, è importante. Il fariseo crede di aver dato scacco matto.
Gesù sta al gioco e offre un’esegesi di alleanza. La Sua voce è eco di memoria di un’Altra voce più antica, che sa di storia ma non di polvere. E’ voce nel vento; brezza mattutina; tuono celeste; parola di fuoco. Il cuore di quei farisei, riuniti con lo scopo di raggirarlo, deve aver avuto un sussulto. Gesù è libro di alleanza aperto dal quale scaturiscono quelle antiche parole che hanno segnato, da quel momento in poi, a mo’ di seconda circoncisione, l’esistenza del popolo.
Gesù sta ricordando loro il senso, il significato, la direzione della Legge che stavano per essere dimenticati. Ma quella frase, quel versetto, così potente e sconvolgente, è segno indelebile nella carne: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico (uno) è il Signore” (Dt 6,4). Sono parole di lava, inizio della preghiera più importante per il popolo. Forse che i farisei si stavano dimenticando di questo? Il primo comandamento, il principiale per l’intera Legge è qui esposto: “tu amerai il Signore, tuo Dio, con (in) tutto il cuore, con (in) tutta l’anima (il fiato) e con (in) tutte le forze” (Dt 6,5). La divinità reclama amore; Colui che ama chiede di essere amato. Non è un capriccio divino e siamo lontani dalla logica del baratto. Dio pone in principio di alleanza il principio di amore. Questo amore genera un processo di generazione, di relazione. Viene chiesto un amore totale e libero, convenienza per la vita del popolo. La persona è vocata a questa relazione con il divino nella sua unicità: cuore, fiato e forze. Ogni spaccatura, frattura interna all’uomo è messa al bando. Dio lo si ama nella totalità della persona. E’ amore che nasce in cuore, la sede di ogni sentimento, il baricentro di ogni decisione. E’ amore che si esplica in fiato, con voci di canto e grida di supplica. E’ amore che vive in forze, nel corpo e nella gestualità. Cuore, fiato e forze dicono che la persona è una. Così come lo è Dio: uno.
Gesù è chiaro: “questo è il grande e primo comandamento” (Mt 22,38). Ma poi accade ciò che nessuno si aspettava. La posta in gioco si alza. Gesù presenta la verifica di questo primo comandamento. E’ il primo esame di coscienza che venne fatto: “il secondo poi è simile a quello: amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mt 22,39).
Sono le stesse parole che Paolo usa per richiamare l’attenzione della comunità della Galazia. Questo amore ha un solo difetto: quello della dimenticanza. Per questo è detto: “guàrdati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” (Dt 6,12). Se si dimentica, l’uomo ritorna ad essere schiavo.
“Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5,1a). Questo amore ha forza di liberazione, di esodo. Ogni volta che ci ricordiamo di questo amore noi compiamo un esodo spirituale, fuori dalle nostre schiavitù. Amare la divinità ci salvaguarda dal cadere di fronte agli idoli: “non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1b). Chi non ama è ancora schiavo; per questo l’Apostolo esorta la comunità nel porsi “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13b). Ecco la verifica di quel grande comandamento: ricordarsi del prossimo, cioè di colui che è il superlativo assoluto di vicino. La prova è questo amore per il mio prossimo, di colui che mi è posto accanto. E’ una prova data dalla similitudine: “come te stesso”. Non ci viene chiesto di amarlo in nessun altro modo.
Gesù dona un criterio antropologico fondamentale. Se non mi amo, non sarò in grado di amare nessun altro. Non si tratta semplicemente di filantropia o di educazione. Si tratta di riversare nell’altro, in colui che mi sta accanto e chiede aiuto, l’amore che ho per me stesso. La prova dell’amore mostra la qualità.
L’amore, quello vero, è qualitativo e non quantificativo. Che non ci capiti di dimenticarlo!
Alessandro